giovedì 27 agosto 2015

Donne di Bagnara Calabra -

                                            (Donna Nina Ianni detta Roccantoni)


Quando gli ordini li dava donna
“Nina ‘a Roccantoni” 

di Pasquale Patamia - 

L’incredibile vita della “bagnarota” che trasformò il commercio - Le donne di
Bagnara giravano l’Italia, scalze, con i soli scaldamuscoli ed una cesta a sponde
basse in bilico sulla testa con i pesci o i lupini che andavano a vendere fino a
Trieste! Si dedicarono dopo molto attivamente al contrabbando del sale dalla
Sicilia al resto della penisola
GIOIA TAURO - Agli inizi degli anni 30, intere famiglie
di bagnaroti, composte prevalentemente da donne, vennero
ad allargare la piccola comunità dei pescatori gioiesi
spostandosi da Bagnara a Gioia Tauro (trasportando le
proprie masserizie con la barca via mare) attratte dalla
sviluppatis-sima attività marinara di Gioia Tauro, all’epoca
tra le più fiorente del basso tirreno.
Ascoltando i racconti che fanno riferimento ad oltre
mezzo secolo fa, emerge nella cultura della marineria di
Gioia Tauro, la figura femminile delle Bagnarote, di rilevante
importanza, in una debole economia come quella
gioiese, in cui il commercio del pesce era nelle loro mani, e
grazie alla loro intraprendenza, la principale fonte di reddito.
A Za’ Sara, donna Nina , personaggi straordinari realmente
esistiti,che hanno segnato un’epoca e che riassumono
tutte le meravigliose caratteristiche delle
“bagnarote”.



Figure indelebili nel cuore e nella mente di ogni gioiese.
Donne dotate di grande forza fisica e d’animo, animate da
un forte spirito imprenditoriale, instancabili lavoratrici nel
campo del commercio ittico; queste donne sia nel territorio
gioiese che in quello
dell’intera provincia, nel
corso degli anni, sono state
decantate da scrittori e
poeti che restavano
affascinati ed incantati solo
a vederle operare.
Donna Nina Ianni, più
comunemente chiamata
donna Nina ‘a Roccantoni,
per via del fatto che le venne
aggiunto il nome del padre, appunto Roccantonio
Musumeci, uomo di mon-do,eroico quanto audace pescatore
di Bagnara.
In particolare,donna Nina ‘a Roccantoni , figlia prediletta
del padre , narrata in diversi saggi e poesie a lei dedicate
da una delle sue più grandi ammiratrici,l’illustre scrittrice
gioiese Francesca Balsamo De Luca ,rappresenta l’ultima
testimone di un’entità etnica, ricca di tradizioni, usi e costumi
ora fatalmente cancellati dal dilagante consumismo
che ha spogliato questa minoranza di tutte le tradizioni.
Donna Nina può essere considerata, a buon diritto,
l’antesignana dell’emancipazione femminile per le sue capacità
imprenditoriali, sia come ar-matrice di un peschereccio,
sia come titolare di una
piccola industria, operante
su larga scala nella vendita
al dettaglio del pesce fresco
e della conservazione
del pesce salato,la cosiddetta
“salamoia”, ubicata
fino agli anni 80 ,alla marina
poco lontano dal
pontile.
Questa artigianale industria
di conservazione, la cui tanta manodopera impiegata,
maggiormente femminile, impegnata in questa lavorazione
che consisteva nel conservare il pesce (sarde, alici e tonni
esclusivamente fornite dalla nostra fiorente marineria) mediante
salatura. Un’attività che divenne una delle più importanti
fonti economiche della città che, nel frattempo, si
proponeva come punto di riferimento nella conservazione
del pesce salato.
Tale florida attività, creata e portata avanti dalla straordinaria
lungimiranza di donna Ni-na, sviluppava un significativo
indotto coinvolgendo centinaia di altre donne che trovavano
in questo lavoro i mezzi di sostentamento delle loro
famiglie.

La leggenda voleva che a Bagnara mentre le donne
giravano l’Italia per lavorare con le loro ceste di
mercanzia in bilico sulla testa, gli uomini rimanevano
a casa a fare le faccende domestiche.-
In effetti non era vero dal momento che gli uomini la
notte erano per mare a pescare e poi tornavano
all’alba a casa e dormivano, per cui dopo, quando si
alzavano curavano le faccende di casa!

mercoledì 26 agosto 2015

Alessandro Mannarino chiude il nuovo tour in Sila -










Non poteva che terminare “al Monte” il nuovo tour di Alessandro Mannarino. A Monte Curcio, per l’esattezza, dove il 13 settembre il cantautore romano chiuderà il suo #Corde2015, un tour che a partire dal 4 luglio toccherà 15 tappe lungo tutto lo Stivale. Lo scenario è quello incantato di Camigliatello Silano dove un anno fa Vinicio Capossela ha radunato 2000 persone a 1800 metri di altezza per il concerto del demone meridiano. Una piccola Woodstock che probabilmente si ripeterà con il concerto di Alessandro Mannarino, anche esso inserito nel contenitore della Sila suona Bee. Mannarino è infatti da anni abituato ai grandi numeri, il tour estivo del 2014, Al Monte live, ha fatto registrare oltre 40mila presenze, successo bissato nei teatri.
Nuovi arrangiamenti e nuovo spettacolo, protagoniste assolute, le corde, ovviamente. Le chitarre sono suonate da Tony Canto (già produttore artistico del cantautore), Alessandro Chimienti e Alessandro Mannarino. Nicolò Pagani al contrabasso. Francesco Arcuri, polistrumentista, suonerà il violoncello, la sega sonora, alcune percussioni e si occuperà della parte elettronica. Al violino, tamburo battente e voce femminile, Lavinia Mancusi. Gli strumenti a corde si appoggeranno sulle ritmiche del percussionista polistrumentista Daniele LeucciQuello che cercherò di fare – ha raccontato Mannarino a Repubblica – sarà soprattutto far risuonare le Corde profonde degli spettatori, attraverso quei suoni organici e vivi che escono fuori dalle vibrazioni dei legni e di chi li suona. Uno strumento biologico, come una chitarra, un tamburo o un violino, somiglia molto a un corpo umano, teme il freddo e il caldo, parla piano e urla forte, sa cantare a piena voce e sa anche sussurrare. Questi pezzi di legno, pelle, corde si incastrano bene con gli esseri umani e sono strumenti in grado di tradurre meglio di altri l’anima in suono“.
                                              

venerdì 21 agosto 2015

Fabrizio De andre' Sogno n° 1

Sogno n.1 è il nuovo album firmato sogno n1 de andreFabrizio De André
Sogno n.1, infatti, è il titolo di un’opera che va ad omaggiare il grande Fabrizio De André e realizzata in modo davvero particolare: la voce del grande cantautore italiano è accompagnata dalla London Symphony Orchestra, diretta da Geoff Westley (uno dei più grandi maestri e produttori di musica).
In una conferenza stampa a Milano, Dori Ghezzi  e Geoff Westley presentavano il disco: Sogno N°1, un omaggio alla voce e alle canzoni di Fabrizio De André. È facile capire come le canzoni del cantautore siano state ovviamente reinterpretate e rivisitate in chiave classica.
Parlando del disco Geoff Westley spiega che l’album è basato sulle musiche di De André; sono state prese le parti cantate, ovviamente con un tempo diverso dalle partiture musicali classiche, dalle quali poi il maestro ha fatto un lavoro di estrapolazione di ogni sillaba e accento, così da poter sfruttare a pieno la voce del cantautore nella nuova versione musicale.

giovedì 13 agosto 2015

F. De Gregori - Rumore di niente di Antonio Piccolo


Rumore di niente
da Canzoni d’amore (1992)

L'avevi creduto davvero
che avremmo parlato esperanto?
L'avevi creduto davvero
o l'avevi sperato soltanto?

5          Ma che tempo
e che elettricità!
Ma che tempo che è
e che tempo che sarà?
Ma che tempo farà?
10        Non lo senti che tuona?
Non lo senti che tuona già?
Non lo senti che suona?

È lontana, però sembra già più vicina
questa musica che abbiamo sentito già.

15        Babbo, c'è un assassino:
non lo fare bussare.
Babbo, c'è un indovino:
non lo fare parlare.
Babbo, c'è un imbianchino
20        vestito di nuovo.
C'è la pelle di un vecchio serpente
appena uscita da un uovo
e c'è un forte rumore di niente,
un forte rumore di niente.

25        L'avevi creduto davvero
che avremmo parlato d'amore?
L'avevi creduto davvero
o l'avevi soltanto sperato col cuore?

Gli occhi oggi gridano agli occhi
30        e le bocche stanno a guardare
e le orecchie non vedono niente,
tra Babele e il villaggio globale.

Babbo, c'è un assassino:
non lo fare bussare.
35        Babbo, c'è un indovino:
non lo fare parlare.
Babbo, c'è un imbianchino
vestito di nuovo.
C'è la pelle di un vecchio serpente
40        appena uscita da un uovo
e c'è un forte rumore di niente,
c’è un forte rumore di niente.

Il pericolo della perdita della memoria storica: questo l’argomento di Rumore di niente, che cerca l’aiuto di chi è stato testimone delle tragedie di ieri (“babbo”) per rialimentare la coscienza storica dell’oggi.

Una vena di amara disillusione percorre l’intero brano a partire dall’inizio, per finire in un pessimismo apocalittico (per opera della musica). Infranti tutti i sogni e le utopie, per cui noi tutti “avremmo parlato d’amore” nella lingua unica e perfetta dell’esperanto[1], tornano i vecchi fantasmi che tanti orrori hanno portato in Europa, come Hitler (“un imbianchino”) e il nazismo (il “vecchio serpente”).

L’io lirico si rivolge ad un tu ignoto, che ci può fare immaginare diversi interlocutori: potrebbe essere il figlio che si rivolge al padre o un dialogo fra padre (vv.1-14 e 25-32) e figlio (vv.15-24 e 33-42). Più probabilmente, si tratta di un dialogo interiore di De Gregori stesso, un dialogo fra due entità che convivono in maniera instabile: la speranza forse irrealizzabile di un futuro migliore e la minaccia più concreta di un disastro.

Già i primi quattro versi partono dalla constatazione di una sconfitta irreversibile: l’anafora[2] dell’ “avevi creduto davvero” non dà via di scampo, non dà possibilità di riscatto. Non c’è neanche tempo per prendere atto di questa perdita, siamo troppo occupati a pensare a “questo tempo che è”, alla tecnologia che avanza con tutta questa “elettricità”. Questo concetto viene definito ancora meglio dopo il ritornello nei versi 29-32: una serie di sinestesie[3] che rappresentano lo sfasamento dei sensi, lo smarrimento della ragione, che con il suo strapotere è perduta “tra Babele e il villaggio globale”. L’ultima grande utopia degli uomini è quella del Global Village, dove la comunicazione la fa da padrone (ma non abbiamo nemmeno l’esperanto per comunicare). In realtà, non siamo riusciti ad arrivarci, perché siamo ancora a metà distanza fra quello e Babele con la sua torre, ancora intenzionati a competere con dio. E, come nella leggenda originaria, in cui dio punì gli uomini facendogli parlare lingue diverse affinché non si capissero, continuiamo a vivere nello scompiglio: i cinque sensi si confondono, “gli occhi oggi gridano agli occhi / e le bocche stanno a guardare / e le orecchie non vedono niente”.

In mezzo all’umanità immersa nella sua competizione con dio e troppo poco interessata alla memoria del passato, ritornano a galla le vecchie malattie dell’Europa. Persino il “vecchio serpente” del nazismo può tornare fresco “appena uscito da un uovo”, persino Hitler l’“imbianchino” può tornare “vestito di nuovo”. Ci sono tanti segnali, fino al tempo “che suona” ma nessuno lo sente (“non lo senti che tuona già?”). Forse c’è una via di salvezza, il bambino lo capisce: a chi può rivolgersi? Solo alla memoria storica, al “babbo”, che ha visto il serpente e l’imbianchino originali. L’esortazione di De Gregori è chiara: il padre, cioè tutti coloro che hanno vissuto l’ieri, deve ripercorrere il passato, ricordarlo incessantemente al figlio, raccontare tutto delle guerre, dei campi di concentramento, di ogni genere di orrore. “E chi oggi non ha ancora vent’anni? Cosa sa (cosa gli è stato insegnato) di quella guerra e di quei campi? (…) Solo riconoscendo alla storia la sua natura di materiale incandescente e scandaloso e solo rendendoci disponibili ancora una volta dopo cinquecento o dopo cinquanta anni a farci scandalizzare nuovamente potremo dire di essere dei nani sulle spalle di giganti, di aver fatto un buon uso del nostro passato senza averlo consumato inutilmente e senza essere «condannati a ripeterlo». E chi oggi non ha ancora vent’anni, allora? È possibile che percepisca la sciagura nazista conclusasi trent’anni prima della sua venuta al mondo come semplice tassello del suo percorso scolastico (la stele di Rosetta, la porpora, l’impero romano, Napoleone, Hitler)? O come fiction («Indiana Jones» come «The Schindler’s List»)? Che possa arrivare, addirittura, a negarne l’esistenza? Il pericolo c’è, ed è sotto gli occhi di tutti. Ed è tanto più grave nel mondo di oggi dove (senza nulla togliere alla specificità del dramma ebraico) la coscienza viva dell’Olocausto varrebbe forse a capire meglio, a prevenire i massacri che ci circondano, le nuove intolleranze, i nuovi razzismi, i nuovi genocidi”[4].

La canzone, perciò, pur avendo uno specifico riferimento al nazismo, vuole essere universale ed attuale. Il bambino vede che sono nati nuovi Hitler e nuovi nazismi, che sono proprio quei “nuovi razzismi” e “nuovi genocidi” di cui si diceva, che possono essere il massacro dei curdi, i fascismi sudamericani, le stragi statunitensi etc. Il brano prende atto della sconfitta delle vecchie utopie e del pericolo che grava sul presente: non risolve né fa previsioni sul futuro, è un punto di domanda, un allarme ripetuto in maniera seria e grave. Non c’è un punto d’arrivo: la richiesta disperata di aiuto da parte del bambino soffoca nell’indifferenza, nell’incoscienza del pericolo. Nessuno riesce nemmeno a sentire quell’allarme e l’unica cosa che sente il bambino è “un forte rumore di niente”. “La conclusione è l’inesprimibile, l’impossibilità di parlare dei sentimenti, dell’amore, quando i sensi non rispondono più”[5].
Questo è quello che ci dice il testo. Ma la canzone si conclude con una lunga ed incalzante coda musicale: Lili Marlen, vecchio successo di Marlene Dietricht che faceva da colonna sonora alle marce dell’esercito nazista. La citazione di quella bellissima canzone, romantica e struggente, che porta col pensiero ai Lager provoca non solo un formidabile effetto dissacrante, ma anche l’inquietudine e l’angoscia di un messaggio evidentemente suggerito da De Gregori: il “vecchio serpente / appena uscito da un uovo” ha cominciato a strisciare e va dritto per la sua strada. Come preannunciato, quella che all’inizio era un’amara disillusione si è mutata in un pessimismo apocalittico.




[1] l’esperanto è una lingua ausiliaria internazionale (lingua artificiale creata per la comunicazione tra persone di differenti nazioni) sviluppata tra il 1872 e il 1887 dal medico oculista Ludwik Lejzer Zamenhof a Varsavia.
[2] anafora: ripetizione della stessa parola (o di più parole) all'inizio di versi o di frasi consecutive.
[3] sinestesia: consiste nell'associare, all'interno di un'unica immagine, sostantivi e aggettivi appartenenti a sfere sensoriali diverse.
[4] dall’intervento di Francesco De Gregori sul sito internet dell’ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti, www.deportati.it, aprile 1994.
[5] da “Francesco De Gregori. 1972-2004: Dell’amore e di altre canzoni” di Giommaria Monti, Editori Riuniti, 2004.

sabato 8 agosto 2015

Parole, musica e fantasia: I VECCHI AMICI





Così ho rivisto i miei vecchi amici;
non accadeva da anni!
Mi sono apparsi felici,
ammesso che il vino non inganni.

“Non sembrate  i miei amici,
ma gli amici di mio padre!”
Dissi dopo i saluti
e in anticipo sulle risate.

“Come va? Tutto bene? E  voi come state?”
I figli, il lavoro e poi solo cazzate;
con i discorsi un po’ più sensati
lasciati per quando ci siamo lasciati.

Per quando s’incontrano  alcool e luci
e giocano insieme e ti fanno la strada
e ti fanno i pensieri lunghi e silenziosi
tipici di chi torna a casa da solo.

Per quando, “in veritas”, parli a te stesso
e ti domandi, con tutto l’affetto,
“ma se li avessi  conosciuti adesso,
quanti di loro ti saresti  scelto?”

Non credo tutti, magari qualcuno,
ma è più probabile, credo, nessuno;
con quelle teste così complicate,
le idee distorte, le scelte insensate…

Quell’ atteggiamento fin troppo sicuro
sotto una sola mano d’ironia
che se durava ancora per poco
l’intonaco dal muro cadeva via.

E cadeva via il vetro dallo specchio
per sputtanare le nostre paure,
la distrazione, la noia, il rimpianto,
il triste vuoto delle nostre parole.

Ma poi ad un tratto il dio della canzone
si manifesta nella mia radio
e con un colpo ben fatto e mirato,
mi scaraventa di nuovo lontano.

E mi sbatte in faccia l’antica incoscienza
che lentamente ho abbandonato;
e mi sbatte in faccia di nuovo il sorriso,
di chi si è risposto, di chi si è compreso.

LUCIO DALLA - AMICO ASPERTINI



Dai tetti di Bologna rubo gloria al vento

per ringraziar lo Dio e la sua cura
Uso un pennello immerso nell'incenso
tante diverse imprese e vinco e vivo
Dal mio crudel destino alla pittura
di vita gloria e virtù mi sento privo
Grazie a tal beltà e a tal figura
prendo dal cielo spento di questa chiesa
Intanto sogno il tempo d'amor perduto
quel breve tempo che non ho mai vissuto
Tali fragili pensieri se li porta il vento
dai nostri fragili pensieri che nasce il vento
e solo poiché moio sarò contento
salendo come scesi dall'infinito
Ammesso che sia degno
...insano amico


............................................................

Amico Aspertini (Bologna, 1474 circa – Bologna, 1552) è stato un pittore italiano del periodo rinascimentale il cui stile complesso, eccentrico ed eclettico anticipa in qualche modo il Manierismo. E'  considerato tra i maggiori esponenti della Scuola bolognese

Tra le sue opere non sono poche quelle bizzarre e Giorgio Vasari descrive Aspertini caratterizzato da una personalità eccentrica, capace di lavorare in modo talmente rapido e veloce da sembrare incredibile, applicando il chiaro scuro contemporaneamente, il colore chiaro in una mano, lo scuro nell'altra, dal momento che era ambidestro.